Nell’autunno del 1822, dopo tanti vani tentativi di uscire dalla “prigione” paterna (dalla mancata fuga del 1819 alle successive ricerche di un impiego fuori di Recanati), improvvisamente si presentò al Leopardi l’occasione di un soggiorno a Roma presso gli zii materni, gli Antici-Mattei, alla cui tutela (specie dell’ottimo e “benpensante” Carlo) Monaldo si indusse ad affidarlo.
Cosí il Leopardi poté, per la prima volta, uscire da Recanati e passare cinque mesi lontano da casa (dal 23 novembre 1822 al 3 maggio 1823), nella capitale dello Stato Pontificio e del mondo cattolico.
Le speranze che avrebbe potuto avere il Leopardi piú giovane erano certo già diminuite ed egli non nutriva molte illusioni sulle piú precise offerte di quella Roma a proposito della quale (specie come sede della curia pontificia) già il 9 aprile 1821 in una lettera al cugino Perticari aveva scritto: «Le corti, Roma, il Vaticano? Chi non conosce quel covile della superstizione, dell’ignoranza e de’ vizi?»[1].
E d’altra parte, al termine del soggiorno romano, il poeta scrivendo al Giordani giustificherà la sua conclusione negativa sull’esperienza romana e sul suo primo contatto con il “mondo” e la società (pur rimpiangendo quel tanto di maggiore libertà avuto fuori della casa paterna) in base a una piú generale ragione: la sfasatura cronologica fra il suo tardivo ingresso nel mondo e la sua incapacità a vivere in società, a causa della deformazione del suo carattere nella troppo lunga solitudine forzata di Recanati:
In verità era troppo tardi per cominciarsi ad assuefare alla vita non avendone avuto mai niun sentore, e gli abiti in me sono radicati per modo, che niuna forza gli può svellere. Quando io mi sentiva già vecchio, anzi decrepito, innanzi di essere stato giovane, ho dovuto richiedere a me stesso gli uffici della gioventú ch’io non aveva mai conosciuta.[2]
Troppo tardi dunque giungeva il contatto con il “mondo”. E d’altra parte come non ricordare (pur senza esagerare nel senso di una frase del De Sanctis: «Il torto non era di Roma, ma era tutto suo») anche per il Leopardi quella tipica disposizione alla delusione rispetto a ogni cosa e a ogni esperienza, sempre limitate se comparate alle aspettative della immaginazione e del desiderio; disposizione che è di tanti spiriti preromantici e romantici? Cosí per l’Alfieri la desideratissima Parigi è del tutto impari alle aspettative proprio in significativo contrasto con il Goldoni che trova sempre la realtà superiore alla immaginazione, Parigi o Roma superiori a come se le era immaginate (si ricordino in proposito le pagine nei Memoires).
Ma, a ben vedere, nella profonda delusione provata nel soggiorno romano (e che sarà elemento di esperienza molto importante per il crescente pessimismo leopardiano rispetto alla vita associata, al “mondo”, alla vita tout court)[3], non si trattava solo di quella disposizione e di quel «troppo tardi».
Ché poi il Leopardi dimostrerà in diversi periodi aperture alla vita di società, ai rapporti con gli uomini, mentre del resto nello stesso soggiorno romano non mancò di apprezzare convenientemente la conversazione di certi salotti di studiosi stranieri e la loro amicizia per lui.
La delusione aveva una base assai concreta nella sua interpretazione durissima della realtà romana che, oltre tutto, viene continuamente messa in contrasto con il suo profondo bisogno di amore e di entusiasmo («Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita» dice al fratello Carlo in una lettera del 25 novembre 1822)[4].
Non solo Roma appare al Leopardi una città dispersa, dispersiva e alla fine inadatta agli stessi rapporti fra gli uomini, per le sue immense distanze; e in questo senso si trattava anche di un’avversione per tutte le capitali e le grandi città sproporzionate alla misura di abitabilità e di socievolezza, avversione aumentata dalla condizione della città allora tanto vasta e spopolata e composta come di tante piccole città isolate fra loro. Ma su Roma cadeva un giudizio reciso e particolareggiato, spinto magari a chiari eccessi (fino al giudizio sulla volgarità e indifferenza delle donne romane)[5], eppure assai motivato dalla sproporzione fra l’intransigenza, l’altezza spirituale e culturale del poeta e una società e cultura in quegli anni di livello per lo meno mediocre.
Anzitutto la recisa antipatia per la corte pontificia e i suoi uomini e burocrati o corrotti o inetti, tutti presi in una vita di scandali, veri, o comunque considerati probabili da una mentalità piccola, pettegola, contaminata dall’illibertà e dal servilismo, dalla frivolezza.
Sí che il Leopardi poteva insieme colpire, in una prosa lucidissima di matrice illuministica, i propalatori di notizie, di scandali, corruzioni, superstizioni e la base di corruzione e di oppressione di ogni pubblica libertà, che permetteva la stessa amplificazione e credibilità dei pettegolezzi e dei compiaciuti rendiconti della vita dei protagonisti della Roma papale. Come avviene nella lettera del 16 dicembre 1822 (cosí spregiudicata che poi Giacomo si atterrí al pensiero che potesse esser caduta in mano di Monaldo):
Cancellieri mi diverte qualche volta con alcuni racconti spirituali, verbigrazia che il Card. Malvasia b.m. metteva le mani in petto alle Dame della sua conversazione, ed era un débauché di prima sfera, e mandava all’inquisizione i mariti e i figli di quelle che le resistevano ec. ec. Cose simili del Card. Brancadoro, simili di tutti i Cardinali (che sono le piú schifose persone della terra), simili di tutti i Prelati, nessuno de’ quali fa fortuna se non per mezzo delle donne. Il santo Papa Pio VII deve il Cardinalato e il Papato a una civetta di Roma. Dopo essere andato in estasi, si diverte presentemente a discorrere degli amori e lascivie de’ suoi Cardinali e de’ suoi Prelati, e ci ride, e dice loro de’ bons-mots e delle galanterie in questo proposito. La sua conversazione favorita è composta di alcuni secolari, buffoni di professione, de’ quali ho saputo i nomi, ma non me ne ricordo. Una figlia di non so quale artista, già favorita di Lebzeltern, ottenne per mezzo di costui, e gode presentemente una pensione di settecento scudi l’anno, tanto che, morto il suo primo marito, si è rimaritata a un Principe. La Magatti, quella famosa puttana di Calcagnini, esiliata a Firenze, ha 700 scudi di pensione dal governo, ottenuti per mezzo del principe Reale di Baviera, stato suo amico. Questo è quel principe ch’ebbe quel miracolo di guarire improvvisamente (come si lesse nelle gazzette) dalla sordità, restando piú sordo di prima.[6]
Mentre in una lettera a Paolina, del dicembre 1822, il poeta intesseva un’argutissima satira sulla frivolezza dell’ambiente romano, incentrato nella vita dei cerimoniali ecclesiastici, degli abati e prelati; quegli stessi che l’Alfieri aveva chiamato, nella sua autobiografia, i «pretacchiuoli» della corte romana, fra i quali aveva pur dovuto dolorosamente aggirarsi per salvare il rapporto con la Stolberg e a cui lo stesso Leopardi doveva rivolgersi, e invano, per tentare di ottenere un impiego:
S’io vi volessi raccontare tutti i propositi ridicoli che servono di materia ai loro discorsi, e che sono i loro favoriti, non mi basterebbe un in-foglio. Questa mattina (per dirvene una sola) ho sentito discorrere gravemente e lungamente sopra la buona voce di un Prelato che cantò messa avanti ieri, e sopra la dignità del suo portamento nel fare questa funzione. Gli domandavano come aveva fatto ad acquistare queste belle prerogative, se nel principio della messa si era trovato imbarazzato, e cose simili. Il Prelato rispondeva che aveva imparato col lungo assistere alle Cappelle, che questo esercizio gli era stato molto utile, che quella è una scuola necessaria ai loro pari, che non s’era niente imbarazzato, e mille cose spiritosissime. Ho poi saputo che parecchi Cardinali e altri personaggi s’erano rallegrati con lui per il felice esito di quella messa cantata. Fate conto che tutti i propositi de’ discorsi romani sono di questo gusto, e io non esagero nulla.[7]
I giudizi negativi si infoltiscono sul clima culturale romano a cui il Leopardi (malgrado alcune sue precedenti diagnosi negative) pur aveva guardato con una certa ammirazione e anzi con vero entusiasmo almeno per quel che riguarda personaggi come Angelo Mai. Adesso, da vicino, egli verifica la mediocrità, l’angustia dell’orizzonte romano, in proposito del quale sarebbero citabili varie precise lettere da Roma. In una di queste, indirizzata al padre Monaldo, il 9 dicembre 1822, egli dice:
Secondo loro [cioè gli uomini della cultura romana], il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato Romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l’Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e pare un giuoco da fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di sasso appartenne a Marcantonio o a Marcagrippa. La bella è che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino o il greco; senza la perfetta cognizione delle quali lingue, Ella ben vede che cosa mai possa essere lo studio dell’antichità. Tutto il giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano ne’ giornali, e fanno cabale e partiti, e cosí vive e fa progressi la letteratura romana.[8]
È un quadro quanto mai scuro, ripreso anche in altre lettere al fratello. Giudizi tanto negativi andranno considerati esclusivamente come effetto d’“umor nero”? Effettivamente no, perché la cultura romana proprio in quegli anni appare assai angusta, chiusa, anche dal punto di vista erudito, filologico. Ormai erano scomparsi certi vecchi e piú alti protagonisti di una grande erudizione, come, per esempio, Ennio Quirino Visconti o Gaetano Marini, mentre per quanto riguarda la letteratura, questa è l’epoca in cui non abbiamo ancora il grande Gioachino Belli, attivo dal ’30 in poi con i suoi formidabili sonetti e abbiamo semmai il Belli che ancora si muove nell’ambito dell’Accademia Tiberina, di certi piccoli giornali come Il giornale arcadico, le Effemeridi letterarie, in un mondo di piccola erudizione e letteratura, chiuso ai fermenti nuovi, romantici e privo d’altra parte di una forte eredità illuministica.
Anche se si dovranno escludere da questo quadro cosí scuro certi uomini colti stranieri che il Leopardi conobbe e che furono per lui lo spiraglio piú vivo o l’unico di questo soggiorno romano.
Non si tratta dei grandi stranieri, che erano passati a Roma pochi anni prima, Keats o Shelley, ad esempio. Ma pure vi erano in Roma certe figure di alti studiosi, veri e grandi filologi e storici che tra l’altro poterono confortare in lui quella ripresa di studi filologici, che pure egli considerava allora assai meno importanti della sua attività poetica e filosofica.
Basti ricordare il Bunsen e il Niebuhr, con cui egli ebbe forti contatti. Cosí che il suo giudizio tanto duro sul mondo culturale romano trovava poi una verifica di validità anche nella diversa maniera con cui egli ebbe rapporti, valutò e fu valutato da questi personaggi stranieri che non avevano un’opinione molto diversa dalla sua circa Roma e la cultura romana: il Niebuhr aveva detto in una sua lettera «Che la cosiddetta Roma» (quasi per dire che era una Roma, non piú Roma) «che una volta era stata il capo del mondo, adesso era diventata la coda del mondo». E proprio il Niebuhr quando conobbe il Leopardi (secondo la testimonianza di una lettera della vedova del Bunsen, amico e successore del Niebuhr come ministro di Prussia a Roma) avrebbe detto di lui che in una città popolata di fantocci rappresentava l’unico uomo moderno degno degli antichi.
Ci furono incontri e ci furono, da parte dello stesso Leopardi, alti riconoscimenti (mantenuti poi attraverso amicizie e scambi epistolari) della diversità di quegli stranieri che si trovavano a Roma, rispetto al mondo romano.
Per esempio, in una lettera alla sorella Paolina egli dice circa certe conversazioni in case straniere (in questo caso nella casa del ministro di Olanda, il Reinhold) che finalmente ha potuto trovare «una conversazione di buon tuono, spiritosa ed elegante, e quasi paragonabile a una conversazione francese»[9]. Ciò che dimostra anche come Leopardi non fosse né un misantropo né un uomo incapace di desiderare e gustare rapporti effettivi e socievoli con uomini veramente colti e civili.
La conclusione di questo periodo è certamente un fortissimo senso di delusione, una convalida di certe sue opinioni sul “mondo”, sulla frivolezza, sulla falsità di una società, come quella romana, in contrasto con la sua eccezionale tensione ai valori veri e alla vita fondata sul “vero”. E tutto ciò trova la piú alta traduzione nella lettera sulla tomba del Tasso, del 20 febbraio 1823, indirizzata a Carlo[10]. La lettera costituisce il documento piú alto del periodo romano, è in certo senso la “poesia” scritta da Leopardi in questo periodo, documento di eccezionale importanza, di una profonda e severa bellezza, chiave per noi per capire tanti punti essenziali di questa grande personalità.
Dopo le prime battute della lettera, che vengono approfondendosi da piú svagati accenni a una lettera di Carlo verso il tema delle sperate nozze della sorella Paolina (in cui l’immagine della vita della sorella con un «giovane» fuori della casa paterna è spia della convinzione leopardiana che, malgrado ogni delusione, la vita piena, libera dalla prigione domestica, occupata di cose e di affetti è pur sempre desiderabile), il tema piú vero si apre contrapponendo subito la delusiva esperienza della società e delle “magnificenze” di Roma a questo unico piacere provato nella capitale cattolica. E il piacere delle lagrime, anche se breve, accentuato fino al margine di una sentimentalità ultraromantica, è opposto alla inutilità delle immense spese fatte dai romani per conseguire vani piaceri che si risolvono in noia:
Venerdí 15 febbraio 1823 [la data è fissata intera come una data storica dell’animo leopardiano] fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere [la sottolineatura ne evidenzia la realtà e l’eccezionalità] che ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro; ma non si potrebbe anche venire dall’America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti? È pur certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che per proccurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate all’aria, perché in luogo del piacere non s’ottiene altro che noia.
Poi, in contrasto con una lunga tradizione di lamentele sull’ingratitudine umana che aveva misconosciuto la grandezza tassesca offrendogli un cosí povero sepolcro, il tema si rafforza nella individuazione centrale dell’eccezionale significato di quella tomba e della grandezza del Tasso, del contrasto fra la «magnificenza e vastità de’ monumenti romani» e la «piccolezza e nudità di questo sepolcro», fra la tomba del Tasso e quella presuntuosa del Guidi:
Molti provano un sentimento d’indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura. Ma tu non puoi avere idea d’un altro contrasto, cioè di quello che prova un occhio avvezzo all’infinita magnificenza e vastità de’ monumenti romani, paragonandoli alla piccolezza e nudità di questo sepolcro. Si sente una trista e fremebonda consolazione pensando che questa povertà è pur sufficiente ad interessare e animar la posterità, laddove i superbissimi mausolei, che Roma racchiude, si osservano con perfetta indifferenza per la persona a cui furono innalzati, della quale o non si domanda neppure il nome, o si domanda non come nome della persona ma del monumento. Vicino al sepolcro del Tasso è quello del poeta Guidi, che volle giacere prope magnos Torquati cineres, come dice l’iscrizione. Fece molto male. Non mi restò per lui nemmeno un sospiro. Appena soffrii di guardare il suo monumento, temendo di soffocare le sensazioni che avevo provate alla tomba del Tasso.
Quel sepolcro, tanto piú affascinante perché cosí nudo, e che tanto piú esalta l’animo leopardiano per la sproporzione sua con la grandezza del cadavere che contiene, è certo il centro potente e mesto-luminoso di questa grande pagina, in cui l’onda delle sensazioni dell’animo sale fino al moto vibrante della «trista e fremebonda consolazione», come commossa verifica di una rivincita sul mondo sciocco e vano, retorico e falso e come ristabilimento della vera proporzione fra grandezza reale e monumentalità esteriore.
Tutta la grandezza e magnificenza romana che aveva commosso per secoli letterati e politici e che avrebbe costituito un elemento di pesante retorica nella successiva tradizione nazionalistica, è qui risolta in esteriorità; Leopardi rifiuta sia la grandezza della Roma antica sia il fasto della Roma barocca. Ma piú mi preme qui portare l’attenzione, di fronte alla comune lettura che tende a esaurirsi nella parte dedicata direttamente al sepolcro del Tasso (si pensi ancora alla simpatia umana del Leopardi per il Tasso e alla differenziazione leopardiana della risonanza sentimentale della diversa infelicità di Tasso e Dante)[11], sull’ultima parte della lettera che si avvia su modi piú semplici e discorsivi e meno apertamente tesi e sentimentali, anche se non manca il raccordo delle «impressioni del sentimento» e, soprattutto, il piú potente raccordo circa la comune origine delle lagrime e di queste impressioni da ciò che è «vero» in contrasto con il «falso» e il retorico:
Anche la strada che conduce a quel luogo prepara lo spirito alle impressioni del sentimento. È tutta costeggiata di case destinate alle manifatture, e risuona dello strepito de’ telai e d’altri tali istrumenti, e del canto delle donne e degli operai occupati al lavoro. In una città oziosa, dissipata, senza metodo, come sono le capitali, è pur bello il considerare l’immagine della vita raccolta, ordinata e occupata in professioni utili. Anche le fisionomie e le maniere della gente che s’incontra per quella via, hanno un non so che di piú semplice e di piú umano che quelle degli altri; e dimostrano i costumi e il carattere di persone, la cui vita si fonda sul vero e non sul falso, cioè che vivono di travaglio e non d’intrigo, d’impostura e d’inganno, come la massima parte di questa popolazione. Lo spazio mi manca: t’abbraccio. Addio addio.
Ogni particolare di quest’ultima parte è fondamentale pur nell’apparenza di un’aggiunta descrittiva e inessenziale.
La via che conduce a Sant’Onofrio non è una via pittoresca o una via sontuosa e monumentale (la via Appia del grande Piranesi), ma una via popolare, costeggiata di case destinate alle manifatture, dove lavora, e accompagna col canto il lavoro, gente laboriosa e attiva. Da quelle case escono rumori di lavoro, strepito di telaio e canto (e chi non ricorda subito l’associazione, in A Silvia, del rumore del telaio e del canto?) e tutto suggerisce una impressione di commozione e di bellezza senza apparente bellezza (piú tardi nel 1828, il Leopardi scriverà nello Zibaldone: «In letteratura, tutto quello che porta scritto in fronte bellezza, è bellezza falsa, è bruttezza» [4329])[12], tutto conduce a un sentimento di verità e di concretezza, di umanità e di semplicità contro ogni ricerca dell’eccezionale e dello squisito ozioso e falsamente disinteressato.
E cosí il Leopardi, si potrà aggiungere un po’ divagando, non fu colpito in Roma dai popolani sanfedisti dei rioni trasteverini, come tanti romantici e come il Belli che ne trasse la sua pur possente e sanguigna poesia, ma da quella minima frazione della popolazione romana operaia, colta nel ritmo del suo lavoro utile e di una letizia pacata associata al lavoro.
Ne nasce una delle vie piú poetiche del Leopardi, una poesia armonica e severa, mossa dai sentimenti piú profondi di questo poeta del vago fondato sul vero e non sul falso.
Quale lezione per i lettori leopardiani che non vogliono fermarsi al poeta di un idillio evasivo misticheggiante o adoratore del nulla e solo immerso nella noia esistenziale! Elementi questi ultimi pur presenti nella formidabile esperienza storica leopardiana, ma sorretti, e alla fine superati, da una forza di verità e di moralità senza di cui si perde il valore intero di quell’esperienza.
Cosí di quest’ultima parte, di cui non sto a sminuzzare tutta la perfetta bellezza, il ritmo profondo che sale dal vero al bello salda tutto il circolo possente e complesso della grande lettera e stimola a una rinnovata attenzione a quel fondo energico, di suprema schiettezza e vigore morale, di bisogno di verità e di realtà che non è mai assente dalle sue pur diverse posizioni ideali e poetiche.
Questa lettera è il documento piú alto del periodo romano e ne riassume le conclusioni piú profonde. Ma nello stesso periodo si dovrà ricordare ancora un altro motivo, cioè quello del bisogno dell’amore, che si trova spesso nelle lettere a Carlo, le piú confidenziali, quelle in cui il Leopardi poteva esprimersi in maniera del tutto sincera, a volte molto aperta e con linguaggio anche pesante, se occorreva. Questo motivo, che deriva dalla stessa formazione del Leopardi (pensate al Diario del primo amore del ’17, al canto Il primo amore), si riaccentua ora e diventa un ulteriore elemento di disaccordo con tutto ciò che a lui sembrava gli potesse offrire il mondo romano, visto assai crudamente nella volgarità e apatia delle donne romane.
Persino in una lettera a Carlo del 5 aprile 1823 («Veramente non so qual migliore occupazione si possa trovare al mondo, che quella di fare all’amore, sia di primavera o d’autunno; e certo che il parlare a una bella ragazza vale dieci volte piú che girare, come io fo, attorno all’Apollo di Belvedere o alla Venere Capitolina»)[13], e pure detto in forma scherzosa, vibra questo prepotente bisogno di amore; un bisogno di amore che, complicandosi con un estremo platonismo e con la suprema delusione della realtà, porta in direzione di quella grande poesia che il Leopardi scriverà nel settembre 1823 a Recanati, cioè Alla sua Donna.
Tornato a Recanati nel maggio del 1823, il Leopardi si rimmergeva nella stesura dello Zibaldone, di cui nel periodo romano aveva scritto ben poche pagine, cosí come non aveva scritto nulla di letterario se non quel Martirio de’ Santi Padri che è in realtà una traduzione e un esercizio di prosa di tipo trecentesco, mentre aveva atteso a qualche importante saggio filologico (soprattutto le Annotazioni sopra la Cronica d’Eusebio, che certamente sono un contributo notevole per la conoscenza dell’alta filologia leopardiana). Pure quelle poche pagine dello Zibaldone non sono prive di significato, soprattutto per la raccolta di sentenze pessimistiche di scrittori classici greci estratti dal Voyage du jeune Anacharsis del Barthélemy (uno scrittore dell’ultimo Settecento) che era stato molto presente allo stesso Foscolo e che, nella descrizione di un viaggio in Grecia, associava una specie di erudizione classico-archeologica con una sintomatica e preromantica silloge di pensieri del pessimismo antico.
Questo scrittore aveva raccolto moltissimi pensieri pessimistici degli antichi quasi a contrapporre all’idea comune dell’antichità tutta saggia, serena, felice, l’idea dell’antichità anche percorsa da questi elementi che potevano raccordarla piú facilmente con certa sensibilità tardo-settecentesca.
Ebbene, il Leopardi, in queste pagine dello Zibaldone, non fa altro che estrarre accuratamente da questo libro un’ulteriore silloge piú ristretta. Da quella raccolta, che nel libro del Barthélemy era tanto vasta (cioè tutte le sentenze possibili degli antichi sulla infelicità della vita), nello Zibaldone dei mesi romani si trovano citate frasi di Sofocle come questa: «Le plus grand des malheurs est de naître, le plus grand des bonheurs, de mourir» [2672], oppure un pensiero di Erodoto, secondo cui «le jour de la naissance d’un enfant est un jour de deuil pour sa famille» [2671], oppure la famosa frase di Pindaro: «La vie [...] n’est que le rêve d’une ombre» («image sublime», dice il Barthélemy, «et qui d’un seul trait peint tout le néant de l’homme») [2672], o finalmente certe famose narrazioni erodotee, come quella dei due figli della sacerdotessa Cidippe, cosí buoni, che la madre chiese agli dei che a essi fosse data la maggiore felicità, e gli dei li fecero immediatamente morire[14].
A parte queste pagine, lo Zibaldone riprende, come dicevo, la sua vera e forte fertilità e alacrità solo dopo il ritorno a Recanati. Anzi si può dire che i mesi seguenti, dal maggio fin verso la fine dell’anno, prima dell’inizio delle Operette morali (che è del gennaio 1824) sono quasi interamente occupati da questa sterminata stesura di pensieri, ultimo grande periodo (quanto a quantità e organicità) dello Zibaldone, se si pensa che dal 1824 in poi esso comprende circa quattrocento o cinquecento pagine e che invece al 1823 (nel giro di non molti mesi) appartengono quasi ottocento pagine.
1 Tutte le opere, I, p. 1119.
2 Lettera da Recanati del 4 agosto 1823, in Tutte le opere, I, pp. 1169-1170. La citazione è da p. 1169. Piú tardi, nel 1827, il Leopardi giungerà a considerare anche come suo errore quel certo amore della solitudine sviluppatosi in lui al contatto con un mondo piccolo e vile. Cfr. Tutte le opere, II, pp. 1135-1136.
3 Già in una lettera alla sorella Paolina del 28 gennaio 1823 da Roma scriveva: «Dopo tutto questo non ti ripeterò che la felicità umana è un sogno, che il mondo non è bello, anzi non è sopportabile, se non veduto come tu lo vedi, cioè da lontano; che il piacere è un nome, non una cosa; che la virtú, la sensibilità, la grandezza d’animo sono, non solamente le uniche consolazioni de’ nostri mali, ma anche i soli beni possibili in questa vita; e che questi beni, vivendo nel mondo e nella società, non si godono né si mettono a profitto, come sogliono credere i giovani, ma si perdono intieramente, restando l’animo in un vuoto spaventevole». Tutte le opere, I, p. 1145.
4 Tutte le opere, I, p. 1130.
5 Oltre alla lettera già citata del 25 novembre, si veda quella, sempre indirizzata a Carlo, del 6 dicembre (Tutte le opere, I, pp. 1131-1133).
6 Lettera al fratello Carlo, in Tutte le opere, I, p. 1135.
7 Tutte le opere, I, p. 1131.
8 Tutte le opere, I, pp. 1133-1134.
9 Tutte le opere, I, p. 1138.
10 Cfr. Tutte le opere, I, p. 1150. Le pagine seguenti, relative alla lettura di questa lettera, sono tratte da un articolo dal titolo «La lettera del 20 febbraio 1823» uscito ne «La Rassegna della letteratura italiana», n. 2, 1963, pp. 193-199, poi pubblicato in W. Binni, La protesta di Leopardi cit., pp. 239-246.
11 Cfr. Tutte le opere, II, p. 1134.
12 Tutte le opere, II, p. 1165.
13 Tutte le opere, I, p. 1158.
14 Cfr. Tutte le opere, II, pp. 679-680.